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Quando riteniamo un medico bravissimo?
Quando cura/salva un paziente! Certo, ma da cosa dipende la cura/salvezza del paziente? La medicina applica (per fortuna) dei protocolli quindi una volta diagnosticata la malattia il gioco è fatto. Certo, ci sono errori anche nelle terapie ma un po’ per negligenza e un po’ per l’intrinseca limitatezza delle cose umane. La terapia medica è strettamente correlata alla diagnosi. Ad una diagnosi, segue una terapia in maniera lineare. Dunque, quando un medico è bravo? Pensate al medico bravo per eccellenza: Dr House.
Cosa fa di Dr. House un genio della medicina?
Le sue abilità diagnostiche!
È la competenza diagnostica a rendere bravo un medico!
E come fa un medico ad essere un bravo diagnosta? Come fa a capire che quel corteo di segni e sintomi è la “carta d’identità” di una determinata patologia? Lo capisce solo se già conosce quella malattia.
Quindi un medico è tanto più bravo quante più malattie conosce!
Deve aver studiato (e deve ricordare) migliaia di malattie per aumentare le probabilità che quando incontra un paziente con determinati segni e sintomi riesca a ricondurre il tutto a quella specifica malattia. La terapia, tranne che per le terapie sperimentali, è sempre la stessa perché ci sono i protocolli terapeutici (per fortuna, perché abbattono i costi, in quanto il metodo scientifico ha già definito che, limitatamente all’ambito medico farmacologico, quella terapia è la migliore per quella malattia).

Eccolo il medico bravo: colui che conosce il maggior numero di malattie (possibilmente anche le manifestazioni inconsuete di esse).
Lasciamo da parte la relazione terapeutica, l’empatia e altri aspetti placebo. Rimaniamo sul sentiero che sto cercando di tracciare con voi. Abbiamo qualche prova di questa centralità della malattia? Eccola: la medicina tradizionale entra in crisi quando più malattie interagiscono fra loro confondendo il quadro diagnostico. Da questo dipende anche il problema per cui le terapie possono interferire l’una con l’altra. Altra prova? Ecco qui: la medicina tradizionale non sa come agire quando un quadro clinico non ha una chiara ‘entità nosologica’ (sinonimo di ‘malattia’) di riferimento. Esistono i cosiddetti MUS (Medically Unexplained Symptoms) che sono sintomi difficili da comprendere e ricondurre a una malattia. Ne parleremo. Ricordatevi questa frase (e c’è un motivo se ve la metto in questo modo):
la bravura di un medico tradizionale è proporzionale alla sua conoscenza delle malattie.
Quando un osteopata è davvero bravo?
Qualche osteopata ha già capito a cosa sto facendo riferimento. Faccio riferimento ad una frase di Still, padre fondatore dell’osteopatia che dice, riferendosi all’abilità di un osteopata,
“L’abilità è proporzionale alla comprensione del normale”.
L’osteopatia è una medicina di terreno e come tale è centrata sul paziente che risponde alle leggi della normalità, non della patologia. Maggiore è la nostra comprensione della normalità, maggiori saranno le nostre abilità nel riportare alla normalità il paziente. Con ‘normalità’ intendiamo la fisiologia, la salute e le leggi con cui avvengono i processi terapeutici. Devo avere in mente un’idea di normalità anatomica, fisiologica e palpatoria per ricondurre il tutto alla normalità. Non è importante riconoscere la deviazione dalla norma (patologia). È di vitale importanza avere familiarità con ciò che è normale.
Partiamo dall’anatomia. Se io so come è fatto un gomito normale so riportarlo ad una normalità anatomica.
Passiamo alla fisiologia. Se io cosa deve fare un gomito normale, è un gioco da ragazzi riportarlo a fare quello che per sua ‘normalità’ (o ‘fisiologia’) deve fare.
Finiamo con la palpazione più raffinata. Se io so qual è il movimento e la qualità tissutale normali, so a cosa devo “puntare” per riportare il tutto alla normalità.
Dovete vedere la normalità come un modello di riferimento. E noi siamo terapeuti che, più o meno abilmente, dobbiamo aiutare il corpo a tornare alla sua normalità. Anzi, alla sua originalità, come direbbe Jim Jealous, uno dei maestri della tradizione dell’osteopatia biodinamica, purtroppo recentemente scomparso.

L’embriologia biodinamica di Blechschmidt.
Ed è proprio qui che si inserisce l’embriologia biodinamica di Blechschmidt: essa è un’embriologia della salute, non della patologia!
Ne parlerò approfonditamente nell’articolo che pubblicherò settimana prossima (iscriviti alla newsletter per non perdertelo!), tuttavia vi anticipo qualcosa. Se prendete un testo classico di embriologia medica, la parte dedicata alla patologia, alle malformazioni, alle devianze, alle anomalie rappresenta il 95% del libro stesso. Nei testi classici, il normale sviluppo fisiologico (che, per inciso, trova sempre spiegazioni e meccanismi genetico-centrici) serve soltanto come base per spiegare la malattia.
È chiaro come, fin dall’embriologia, nella medicina il focus è sulla malattia, non sulla salute! Capite che è proprio un paradigma diverso dal quello che abbiamo (o dovremmo avere) in osteopatia! Non è un paradigma migliore o peggiore. Solo diverso. Nei libri di Blechschmidt, escluse poche frasi, “è tutta salute”! Cioè il focus è sempre sullo sviluppo biodinamico normale dell’embrione, che obbedisce a delle leggi biodinamiche e differenziazioni sempre uguali.
E questo si ricollega a quella parolina ‘originalità’ di Jim Jealous. Perché nel trattamento, non solo in quello in biodiamica, se riusciamo a riportare il paziente in contatto con la sua originalità, il potenziale terapeutico diventa enorme perché sono quelle forze formative biodinamiche (sempre presenti finchè siamo in vita) le ricostruttrici della normalità!

Quindi non dobbiamo lasciarci impressionare (letteralmente, qualcosa che si imprime nella nostra testa) da quel che è sbagliato, da quel che è deviato, ma
dobbiamo nutrire la nostra mente e le nostre mani di terapeuti di immagini di normalità, di fisiologia, di salute… di originalità!
Questo aumenterà la nostra comprensione del normale! Mi piace la parola “comprensione” e non “conoscenza” perché le malattie le conosci, la normalità… non proprio. Chiariamo questo passaggio: la normalità certamente la conosci nella maniera classica perché la studi. Ad esempio: devi ricordare che il diaframma ha quella origine embriologica, il che spiega clinicamente certe cose. Oppure: devi ricordare le relazioni embriologiche degli archi faringei per posizionare le mani nella maniera più corretta. O ancora: devi ricordare la potente forza formativa del tubo neurale per comprendere perché durante il trattamento alcune parti del corpo hanno un’enorme reattività tissutale. Insomma devi conoscere, nel senso più classico e accademico del termine.
Ma devi lasciarti impressionare. Devi fare in modo che quelle immagini, quei brillanti schemi dei movimenti di sviluppo embrionali normali che disegnava Blechschmidt entrino dentro di te. E che costruiscano un’immagine di normalità/originalità.
Comincerò ad usare i termini ‘normalità’ e ‘originalità’ in modo intercambiabile.

Concludendo, un medico è tanto più abile quante più malattie conosce. Un osteopata è tanto più abile quanta più normalità riesce a comprendere. Ed ecco il vantaggio dell’embriologia biodinamica di Blechschmidt per un osteopata:
l’embriologia biodinamica di Blechschmidt, essendo l’embriologia della normalità, aumenta la nostra comprensione del normale, non della malattia.
E, tra l’altro, come descritto nel primo articolo dedicato all’embriologia biodinamica (lo trovi cliccando qui), permette alla “altre” normalità (anatomica, fisiologia e palpazione osteopatica) di essere inquadrate nella giusta prospettiva, diventando parte di un sistema logico. Oltre che bellissimo.
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A cura di Giandomenico D’Alessandro
Complimenti per aver avuto la pazienza di divulgare ciò che hai acquisito. Anch’io ho frequentato l’Aiot e successivamente il corso di Biodinamica. Rileggere queste pagine mi ha riportata a 10 anni fa…. Grazie
Grazie Nicolina, rischiamo di perdere tutto questo perchè in questo periodo altre metodiche stanno prendendo il sopravvento e con loro anche una filosofia dell’osteopatia “malata” si sta diffondendo. “Malata” perchè parcellizata, basata sulla patologia e fatta di tecniche vuote. Sarebbe un peccato perdere, invece, l’osteopatia che io e te, come altri, conosciamo. E non mi riferisco solo all’approccio in biodinamica, ma anche al background filosofico che Still ha inziato e che i suoi grandi successori hanno perfezionato. Vi è un’essenziale potenza terapeutica che, se applicata quando serve, nella giusta misura e in maniera integrata, fa la differenza per la salute dei pazienti. Ecco il motivo per cui ho iniziato questa divulgazione!
Grazie per il commento.
Bravo, un bel pezzo. Non vedo l’ora di leggere il prossimo! Grazie
Grazie Edoardo, il prossimo articolo arriva fra 5 giorni!
G
Ho iniziato a leggere i tuoi articoli e mi hai fatto incuriosire… sono Ostetrico e ho acquistato il primo libro di Blechschdmit !!
Grande! Buona lettura!
G
L’uso dei termini adoperati dai più per indicare o descrivere una realtà è imprescindibile dal suo corretto utilizzo, perché esplicativi, per quanto possibile, della stessa.
Il termine normalità, usualmente adoperato in ogni campo dello scibile, non è scevro da oculate critiche. Normale anche a parere di una unica persona, può non esserlo affatto sia per la stessa in occasioni che sembrano identiche, e tanto meno per altri o in diversi accaduti. Dovremmo analizzare al meglio questo termine in specie quando applicato a fenomeni vitali, che, pur essendo simili, in realtà non possono essere per estrapolazione uguali e comuni a tutti, come si può ben osservare in Natura.
Perciò l’abilità di un terapeuta, comunque classificato, per me risiede non nel ricondurre alla “normalità” lo stato del paziente, ma nel saperlo riportare al suo proprio, caratteristico stato di benessere psico-fisico. L’uguaglianza in Natura non esiste; vige,invece, la diversità manifesta anche nella patologia mostrata eventualmente.
Quindi il terapeuta, come più ampiamente oggi è riconosciuto, dovrebbe valutare l’alterazione mostrata dal paziente, integrandola in un più ampio campo di relazioni e non soltanto in quello fisico immediato.
Difficile ciò, vero, però non impossibile.
La ” vis medicatrix” individuale, così richiamata, sarebbe veramente salutare non solo a breve termine, ma anche nel tempo.
Grazie Livio, molto interessante la tua riflessione. La penso come te circa l’unicità e l’originalità individuale dei processi terapeutici e della fisiologia: davvero siamo diversi e davvero vi è una differenza, anche minima, interindividuale. Anzi, facendo riferimento al libro “Il normale e il patologico”, ogni individuo è ‘normativo’, ossia in grado di generare nuove norme a cui lui solo fa riferimento. Tuttavia, vi sono delle somiglianze, sia biomeccaniche che biodinamiche fra gli individui. Sia nella salute, che nei processi terapeutici. La normalità nel paziente, per me, è la silenziosa espressione della salute mediante alcuni ritmi/movimenti sottili che derivano, con ogni probabilità, dai movimenti biodinamici embrionali di formazione. Questi movimenti possono avere delle differenze minime con cui si esprimono, ma la “sensazione” che arriva al terapeuta è identica, ossia un senso di pienezza e completezza, di auto-sufficienza e di unità. Stessa cosa per i processi terapeutici: devono essere differenti sia da paziente a paziente che nello stesso paziente da seduta a seduta. Jealus ci mette in guardia quando sentiamo spesso le stesse cose durante i trattamenti: ci stiamo fossilizzando in una falsa idea di normalità, creata dalla nostra mente, non esperita sul momento. Ma come per la salute, anche per i processi terapeutici, vi è una normalità, una costanza: la sensazione di assistere ad un “film terapeutico” in cui il “regista” è sempre lo stesso, ossia la salute. E per quanto ci possano, anzi… ci DEVONO essere delle differenze (di zona anatomica, di processi, di modificazioni quali-quantitative soggettive o oggettive) la salute, o normalità, ha dei caratteri distintivi e identificativi inconfondibili.
Ovviamente uno o più fattori e costanti comuni ai fenomeni viventi, in genere, debbono essere presenti e quindi rilevabili, percepibili e valutabili anche ai fini terapeutici,
Apprezzo che la tua, in specie, valutazione dei parametri suddetti nel paziente sia condotta non con la usuale, e purtroppo generalista prassi che si rileva nel rapporto terapeuta-paziente, ma con oculata attenzione anche alle peculiarità di ciascuno.
Questa discriminazione tra quello che appare parcellizzato e che è, invece, totalitario viene integrata nella corretta lettura e nel conseguente processo terapeutico che tu, magistralmente, ti sforzi di applicare.
Ti sarei grato se tu mi fornissi gli estremi del libro da te citato “Il Normale e il Patologico”.
Cordialità.
Ciao Livio, grazie per aver notato questi aspetti. Il merito, come sempre, è soprattutto dei maestri!
Leggo con ritardo questa tua richiesta, e se ti fa comodo ecco qui il link del libro in oggetto http://bit.ly/Normale_patologico
Ciao Giandomenico!
Sarebbe stato bello citare, in virtù dell’argomento trattato in questo articolo, il saggio “Il normale e il patologico” di Georges Canguilhem, che demolisce le pretese della medicina positivistica di definire la malattia come pura differenza quantitativa rispetto a norme oggettive, radicandola nell’esperienza del soggetto quale individuo vivente.
Sottolineo, come già fatto da Emilio Del Giudice, la necessità che l’operatore viva condizioni psico-fisiche migliori rispetto a quelle del paziente.
Senza queste, nessun osteopata e nessun medico sarebbero in grado di prendersi cura del prossimo, indipendentemente dal metodo di indagine riduzionistico che caratterizza l’area semantica medica (allopatica o alternativa).
“L’abilità è proporzionale alla comprensione del normale” resta una delle massime più discusse, nell’ambito della teoria dei sistemi complessi, di A. T. Still.
Ciao Claudio, hai ragione! Infatti abbiamo menzionato il libro di Canguilhem nei commenti precedenti con Livio! Quel concetto di Del Giudice è straordinario e, spesso, come operatori abbiamo avuto intuitivamente pensato che fosse proprio così!